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ESERCIZI D’AUTUNNO

ESERCIZI D’AUTUNNO

Francesca Marzia Esposito

Esco sul retro, c’è nebbia densa in cortile. Sono tre giorni che a Milano è comparsa la nebbia. Dà lentezza alle cose, la nebbia, le immobilizza. Anche la fila nera dei secchi della spazzatura assume un certo contegno, una maggiore compostezza. Alzo gli occhi al quadrilatero dei palazzi attorno, si vedono i panni stesi, tanti rettangoli colorati nell’aria sbiadita, e i ballatoi delle case di ringhiera con le porte a vista. Sono belle le case di ringhiera, penso. Pami sta vuotando il secchio dell’umido, l’operazione finisce con un rumore di latta, un colpo sordo e vibrato del coperchio.

Dove sta, dico.

Ti conviene girargli a largo, è incazzato nero, ieri sera c’era il delirio, si è messo a servire al posto tuo, rompevano perché la roba non arrivava mai.

Era un’emergenza.

Se ne fotte.

Glielo spiegherò. Dove sta.

Accompagno la porta dopo di lei e appena metto piede dentro ecco Ros, lì in mezzo alla stanza a gambe divaricate, che mi fissa. Riesco solo ad aprire la bocca.

Sei licenziata, dice.

Non ho nemmeno insistito, ho unito per bene i malleoli, la borsa premuta lungo il fianco, e me ne sono andata. La presunzione di farcela sempre e comunque senza di loro, questo mi ha sempre fregata con gli uomini. Quindi ho la giornata libera, seicento euro con cui tirare il mese, le fotocopie del cv da fare, e la ruota si è rimessa a girare. La città si divarica a ogni passo, io avanzo e lei diventa immensa, il traffico non mi appartiene, non ho fretta, non ho freddo, non ho la forza di disperarmi. Molte sagome marcianti, lungo il viale gli alberi sono infuocati dal sole. Una città a disposizione senza avere la minima intenzione di utilizzarla. Entro nel portone, prendo la posta dalla cassetta, mi scrive tale Banca Intesa e certo Signor Gas. Tengo in mano le due buste, entro in casa, il silenzio delle stanze vuote mi uccide. Accendo la tivù, mi svesto, rimango in mutande e maglietta davanti allo schermo. Mandano una diretta, c’è gente ammassata nei barconi, dice che vogliono venire in Italia, ché in Italia si sta bene, c’è lavoro. Mi va una cosa che faccia rumore nel palato. Spacchetto la confezione trasparente, mastico un cracker e con la destra apro il miscelatore della doccia. Ho tutto sabato e metà domenica, questo è il weekend di Max. Non posso nemmeno mettermi a cercare lavoro, credo che farò molte docce, sì, molte docce.

La pelle spugnata dal vapore bollente dà sollievo, ho la faccia cancellata, la sento a monoblocco, una maschera di carne senza fessure. Tanto non mi vede nessuno. Calpesto mattonelle, lascio impronte coi talloni gocciolanti, prendo la macchinina blu con le fiamme, a terra, in corridoio. Vado ad appoggiarla sul tavolo di Lori. C’è il mantello argentato appallottolato sul suo letto, lo piego in quattro. Le cose di Lori lo aspettano. Come me del resto. L’accappatoio vibra, è un numero che non conosco.

Pronto, dico.

Come stai.

Brava, non memorizzare mai i nomi, penso.

Bene, dico.

Io pure bene, dice lui.

Ho un ricordo vago, belloccio, amico di Pami, perfetto sconosciuto. Non dico niente, aspetto.

Ho saputo che stasera non sei di turno.

Be’, è un eufemismo.

E visto che tanto non lavori, che ne diresti se ci bevessimo una birra.

Per festeggiare il mio licenziamento.

Lui sorride. Vuoi fare sesso con me? cercatene un’altra, penso. L’asciugamano sta diventando sempre più freddo, vado in camera, sciolgo il turbante e mi friziono i capelli sulla tempia sinistra, dall’altra parte mantengo il telefono.

È che ho già preso un impegno, vado a vedere un film.

Quale?

Giusto: quale.

Il posto delle fragole, dico.

Appena uscito?

Certo, nuovo nuovo, direttamente dal 1957, penso. Le cose inutili che si sanno con una laurea in storia del cinema. Si crea un silenzio senza tensione, almeno da parte mia. Per quanto mi riguarda possiamo rimanere zitti per l’eternità.

Allora sarà per un’altra volta, dice.

Sarà per un’altra volta, ripeto.

Quando attacco ho i piedi ghiacciati, devo mettermi assolutamente un paio di calzettoni. Sono nuda tagliata a metà nella striscia di specchio incollata al muro ma se mi metto di profilo posso starci intera e così faccio. Le scapole sporgenti, troppo magra ossuta, la mia schiena, e i seni tondi da adolescente. Tra qualche anno non sarà più così, dovrei approfittarne adesso che sono ancora giovane, dovrei forzarmi, fare come fanno le altre, imitarle, copiarne da fuori i movimenti; le azioni contengono pensieri, imparerei così la correttezza delle intenzioni, invece io evito, preferisco. Certe situazioni non le so gestire. O forse non le voglio gestire. Sono un pezzo di manzo congelato abbandonato in mezzo a un ghiacciaio. Non si sblocca nulla, si ispessisce soltanto. E tirare calci al manzo congelato non è una soluzione, lo sposti  ma non lo muovi.

Mi giro sull’altro fianco, se tiro dentro la pancia mi si possono contare le costole. Sono un Gesù Cristo ragazzina. Sì, sembro una ragazzina, penso. Sembro: vuol dire che non lo sono più. Prendo uno slip di cotone e la t-shirt dal cassetto. Mi arriva un messaggio: Mami ti sto facendo in disenio. Nella vita abbiamo in dotazione una cosa buona a cranio, la mia è Lori. Mangio, bevo, guardo la tele, guardo la tele, guardo la tele… Quando riapro gli occhi la spalla formicola, il braccio è duro, rimane appeso insensibile, come se me lo avessero imbottito di lidocaina. Cerco il telecomando tra le fenditure del divano col braccio buono, spengo, il brusio sparisce e il mondo statico mi ripiomba addosso. Prendo il telefono, la bustina verde cadmio lampeggia sul display. Ci sono due messaggi. Com’era il film………? Mille puntini di sospensione. Magari li unisco e viene fuori il disegno del tizio con la scarpa vecchia abboccata alla canna da pesca. Cancella messaggio, o rispondi messaggio?Apro l’altro: Mami o fatto dentifrico, domani ti porto le catsgne, buonanote.

Attutisco il silenzio mettendomi a pulire. La candeggina punge agli occhi, divarica le narici. Pulire è terapeutico, fa sentire utile, dà un senso preciso, crea un obiettivo raggiungibile. Prima è sporco, poi pulito. Azione, risultato. Cose sensate. Alle tre mi viene fame, alle tre e venti mi appisolo. Sogno una dimensione accelerata, io che precipito nel vento e mentre precipito, a pochi metri dallo schianto, sento suonare. Il suono si stacca dalla caduta in picchiata, io stessa mi sdoppio e riprendo coscienza seccata: stavo cadendo così bene. Apro gli occhi, vado a rispondere al citofono. Io, dice. Se c’è una cosa che mi urta è la gente che si presenta senza avvisare. Schiaccio il tasto, sento il portone che scatta. È successo qualcosa? dico. Lei entra e io chiudo per bene la porta. Pami avanza con tutta la sua zaffata caramellosa a strascico. Usa quelle creme che sanno di zucchero raffinato. Si guarda attorno, le pupille fanno cerchi continui sulle pareti.

Wow, questa casa è uno specchio, dice.

Solo una domenica su due, dico.

Preparo la moka, lei rimane in piedi sui dei tacchi vertiginosi, è vestita manco dovesse fare serata in discoteca. Scosta una sedia dal tavolo, ci appoggia il giubbino.

Quindi mi ha già rimpiazzata, dico quando finisce di raccontare.

Si alza, la tazzina sporca la mette nel lavello. Appoggia l’osso sacro a bordo tavolo, automaticamente mi scosto indietro. Ho il suo bacino qui in primo piano che mi fissa, le braccia invece sono incrociate poco più su. Con la testa fa una virata in diagonale verso la porta.

Il mio fidanzato? dice.

È a castagne, col padre.

Quel bosco piaceva un sacco anche a me, penso.

Bene, allora affrontiamo il nocciolo della questione.

Non dico.

Guarda che il mio amico è un bel tipo, e se la passa pure bene.

Beato lui.

E dice che tu gli interessi, che hai un che di.

Di?

Strano.

Io non sono strana. Tu mi trovi strana?

Ma che c’entra.

Nel senso, se io fossi strana tu me lo diresti?

Non sono mica un maschio.

Guardo verso la finestra, non fa nessun tempo, hanno appeso un pannello di compensato dietro al vetro. Un pannello di compensato al posto dell’orizzonte.

Insomma, quanti anni hai, dice.

Pami, si può sapere cosa vuoi stamattina?

Non è mattina. Lo vedi? Lo vedi come stai messa?

Allora, segui il labiale: Io. Non. Ho. Un. Lavoro.

Tu. Non. Hai. Un. Uomo.

Brava, facciamo i conti.

Vado a chiudere la porta del bagno, sono le scarpe di Lori, sbattono nella centrifuga a ritmo regolare creando un basso continuo, una percussione di suola, sempre la stessa nota, sempre la stessa. Ne ho trentatre, penso, maledizione, trentatre anni, un attimo e saranno quaranta. A un certo punto dice che deve scappare, ha ricevuto un messaggio, si riveste di fretta e furia e se ne va. Diventa buio, accendo tutte le luci così evito di formare ombre deformi sui muri mentre cammino.

Lori scappa di corsa in corridoio, dice che deve andare in bagno. Lo seguo con lo sguardo, ritorno sulla faccia stravolta di Max, ho lasciato la mano di taglio sulla porta, tanto non entra. Si sistema gli occhiali sul setto nasale, è un nuovo tic, da un po’ di mesi compie in automatico quel gesto, quando stava con me non lo faceva, un micromovimento a ripetizione periodica. Forse basterebbe stringere le viti delle stanghette.

Com’è andata, dico.

Bene.

Qualcosa che devo sapere?

Con Sandra? penso.

No, a posto, ti racconto un’altra volta.

C’era una volta che non arrivò mai, penso mentre chiudo la porta. Mi guardo il polso strozzato dai manici di plastica del sacchetto pieno di castagne, non so che farmene. Il calpestio pesante di Lori riattiva la casa, siamo al completo, penso. Ordino le pizze, quella di Lori la seziono a spicchi, lui afferra un triangolo dopo l’altro, è estremamente concentrato. È un esercizio che non so fare più, rimanere così aderente all’azione, a un oggetto. Scopro che non ha finito i compiti, me lo dice placidamente mentre si sta rosicchiando il cornicione.

Perché non li hai fatti sabato?

 Lo sai che l’ho battuto due volte? Due!

Avete fatto solo giochini.

Non è un giochino la Wii.

Trentasette anni, Max ha trentasette anni, penso.

Prendi il diario.

Tanto lo so cosa devo fare.

Prendi il diario.

Scende dalla sedia, va di là trascinandosi. Poco dopo ritorna, si rimette seduto. Sposto il piatto, sfoglio velocemente le pagine, alzo gli occhi. Lori è a braccia morte sotto al tavolo, i resti di cibo smozzicato davanti. Punto un dito perfettamente davanti al suo naso e lui diventa strabico per guardarlo.

Ascoltami bene. Solo perché è tardi. Ma è l’ultima volta. L’ultima, prometti.

Va bene, promesso.

Guarda che hai promesso.

Sì.

Guarda che una promessa è un impegno serio.

Lo so.

Rileggo velocemente l’esercizio da fare.

Tu due, io tre, dico.

Ma avevi detto che li facevi tu.

Tu due, io tre. Intesi?

Fa un cenno col capo, mi faccio passare l’astuccio, apro la cerniera fa quel rumore di sgranatura, cerco una penna.

Mami.

Che c’è.

Se Sandra si sposa con Max?

La penna mi rimane in equilibrio sul medio. Lori si puntella col gomito, appoggia la guancia nel palmo della mano. Quell’uomo diventa un estraneo giorno dopo giorno, penso. Siamo sempre stati contrari al matrimonio, era il nostro punto cardine. È colpa mia, fatico a immaginare la vita lontana dal prevedibile. Vorrei stare dentro una realtà media, un compromesso senza picchi né sbalzi, nessuna novità con cui dover fare i conti, non chiedo nemmeno felicità o che so io, solo un tempo sufficientemente lungo senza cambiamenti. Sposarsi. Meraviglioso. Ci mancava questo. Tra qualche anno oltre a cambiare idea muterà nome e fattezze, diventerà irriconoscibile.

Mami.

Sono cose loro, dico.

Do un’occhiata alla pagina precedente, giusto per riprendere la mano, dunque, tre pensierini sull’autunno.

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Pubblicato su GRANTA N.3

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